L’occupazione non regolare segna un calo del 18,4% rispetto al 2019, registrando una diminuzione pari a quasi il doppio di quella regolare (-9,9%).
La crisi pandemica iniziata nel 2020 ha avuto effetti considerevoli sul ricorso al lavoro irregolare che, per la prima volta dall’inizio della serie (1995), risulta inferiore ai 3 milioni di unità. Lo rileva l’Istat in un Report sull’economia sommersa spiegando che nel 2020 sono 2 milioni e 926mila le unità di lavoro a tempo pieno (Ula) in condizione di non regolarità, occupate in prevalenza come dipendenti (circa 2 milioni e 153mila unità). L’occupazione non regolare – si legge – segna, un calo del 18,4% rispetto al 2019, registrando una diminuzione pari a quasi il doppio di quella regolare (-9,9%).
Il ricorso al lavoro non regolare da parte di imprese e famiglie – spiega l’Istat – è una caratteristica strutturale del mercato del lavoro italiano. Sono definite non regolari le posizioni lavorative svolte senza il rispetto della normativa vigente in materia fiscale e contributiva, quindi non osservabili direttamente presso le imprese, le istituzioni e le fonti amministrative. Anche il tasso di irregolarità, calcolato come incidenza percentuale delle Ula non regolari sul totale, risulta in forte calo nel 2020, attestandosi al 13,6%, con una contrazione di 1,2 punti percentuali rispetto al 2019. Anche nel 2020 il tasso di irregolarità si conferma più elevato tra gli occupati dipendenti in confronto agli indipendenti, rispettivamente 13,9% e 13,0%.